articolo di Luciana Mongiovì
La recente nuova ondata pandemica ci cimenta, ancor più gravosamente, col senso di caducità dell’esistenza umana. Questo secondo tempo sembra comportare infatti un aggravio economico e psicologico ulteriore, perché ci trova più deboli, depauperati dal “primo tempo”, o, forse, perché rileva la valenza traumatica – sul piano della rappresentazione psichica – della prima fase.
Gli accadimenti della contemporaneità, e nella fattispecie il ricorso nel mondo, più o meno a macchia di leopardo, del “sistema difensivo” del lockdown, ci mettono a confronto col tema della morte, non soltanto quella dolorosamente fisica dei cari che perdiamo ma anche in riferimento a un vissuto psichico di tipo depressivo che tende a diffondersi.
Gli eventi di questa nostra epoca controversa sembrano catapultarci, talora, dentro le stanze che ospitano la personale di un grande pittore, Goya o Kubin, in cui il visitatore s’immerge, venendone risucchiato, dall’intreccio inestricabile tra vita e morte, catturato da opere d’arte ove l’ineluttabile sofferenza umana si mescola con una spinta vitale.
Per gli stoici «appena veniamo al mondo, cominciamo a morire»; per lo psicoanalista francese Pontalis «la morte, dentro la vita, è “al lavoro”».